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la prima missione non si scorda mai

Il cancellino si apre, ci accoglie un bambino che avrà l’età del mio piccolo, 7/8 anni. Ci accenna un piccolo sorriso. Porge la sua delicata mano agli uomini, ad Alex e ad Enrico, e come gli hanno insegnato già rispettoso delle tradizioni, quando mi vede mette una mano sul cuore e china il capo, come segno di saluto alle donne. La nostra guida lo informa del motivo della nostra visita. Lui come un piccolo ometto, capofamiglia, accetta di farci entrare in quella che da poche settimane, da quando è morto suo padre, e’ la sua casa. Ci togliamo le scarpe e scalzi con molto rispetto e delicatezza entriamo nella vita di questa famiglia. La madre ha il viso coperto, ma dalla fessura del velo s’intravedono gli occhi, di questa giovanissima donna. Con voce bassa e quieta, si rivolge agli altri suoi 6 figli, loro entrano in una stanza e ne riescono pettinati e con i visini lavati: siamo per loro ospiti importanti. Da questo momento in poi il rituale e’ sempre lo stesso, oltre al pacco degli aiuti alimentari che noi consegnamo, c’è il desiderio di queste famiglie, di trasmettere in pochi attimi, la loro calorosa accoglienza. Ci viene ogni volta offerto del caffè, vorrebbero parlare a lungo con noi, ma il tempo e’ tiranno e purtroppo dopo poco ci salutiamo.

Le numerose famiglie profughe siriane che abbiamo visitato, grazie all’elenco che ci è’ stato fornito da Kahteen Syrian Orphans Organization, sono perlopiù formate da giovani madri, rimaste vedove da poco, i padri dei loro figli sono tutti morti a causa dei raid del regime siriano. Abitano in strutture umide e scalcinate, dall’odore fastidioso. Hanno scale rotte, prive di ringhiere, che noi genitori del benessere avremmo subito provveduto a barricare con ringhiere e cancellini per la sicurezza dei nostri figli. L’interno di queste “abitazioni” appare semplice ma pulito, spoglio ma ordinato. Il pavimento e’ ricoperto di tappeti o stuoie, sulle quali veniamo invitati ad accomodarci. Seduti per terra con gambe incrociate ci rendiamo partecipi dei loro immensi dolori, delle loro strazianti vite.

Molte di loro erano famiglie benestanti. In alcuni casi ci hanno raccontato che i mariti erano medici o farmacisti. Conducevano una vita del tutto normale: scuola, lavoro, famiglia. Hanno perso tutto nel giro di poco tempo. Ci fermiamo per un caffè. Siamo stremati, l’elenco delle famiglie da visitare e’ ancora lungo. Mentre siamo seduti al tavolo, passa un anziano signore, zoppicante, al posto della gamba ha un sostegno in legno. La guida ci dice che la sua famiglia versa in condizioni economiche molto precarie, vengono tutti da Aleppo. Noi ci guardiamo, e senza parlarci decidiamo in un attimo di farlo salire con noi in macchina, ci fermiamo al magazzino per acquistare un altro pacco alimentare.

Solo allora mi accorgo che ad inscatolare quanto acquistato, sono dei bambini piccoli. Sarà uno di loro a salire in macchina con noi per accompagnarci dalla sua mamma e dai suoi fratelli. Ci ritroviamo in 7 persone in auto. Durante la settimana frequenta la scuola, il venerdì e il sabato contribuisce con il suo lavoro al magazzino, al sostegno della sua famiglia. Ormai e’ buio, ma decidiamo di proseguire, assistiamo ancora molte famiglie. Rimango colpita da una di loro. Ci ritroviamo in un piccolo appartamento, con tanti bambini di diverse età e 2 persone anziane con loro: questi bambini hanno perso il papà a causa di una scheggia e la mamma pochi mesi fa, morta di cancro. Mi ritrovo emotivamente a terra. Fingo davanti a loro, mi rendo conto che non posso mettermi a piangere, ma esco da quella porta con gli occhi lucidi e un grosso nodo alla gola. E’ stata un’ esperienza umana molto forte, gli occhi di quei bambini, le loro manine, rimarranno sempre nel mio cuore. Così come rimarranno quelle giovani donne, vedove, vestite tutte di nero. Coperte da capo a piedi, con solo una piccola fessura nel velo per riuscire a vedere il mondo. Inizialmente non posso negare che mi mettevano timore. Poi pian piano ho cominciato ad affezionarmi e quando gli uomini non vedevano, mi parlavano in arabo, io non capivo, ma loro continuavano. Avevo la certezza che in quel momento non chiedessero elemosina ma comprensione, affetto, conforto.

Nell’ultima abitazione visitata c’era un gruppo di 5 donne vedove con 10 bambini. Una di loro mi invita ad entrare in una stanza. C’era una piccola bambina malata che tossiva. In quel momento maledico con tutta me stessa i doganieri turchi che hanno sequestrato senza motivo, il bagaglio medicine di Alex. Metto la mano sulla spalla della madre e mi ritrovo stretta tra le sue braccia. Abbiamo pianto, singhiozzando, lei per la sofferenza io per l’impotenza. Lei alza lo sguardo al cielo verso quell’unico Dio che ci accomuna durante le preghiere di salvezza. Mi sento investita di una responsabilità enorme. Mi sento impotente. Faccio fatica a staccarmi dalle sue braccia. Rientro in macchina, rientro nel mio mondo. Ma decido insieme agli altri che non l’abbandoneremo.

Ringrazio i miei compagni, Alex e Enrico, per lo splendido lavoro di squadra e la nostra grande guida che ci ha seguito per tutta la giornata, senza lasciarci per un attimo soli e dandoci consigli indispensabili. Ma soprattutto ringrazio con il cuore Cinzia, Ludovica, Grazia, Lorena, Manuel, Stefano, Massimo, per il grandissimo supporto psicologico e la forza che ha distanza ci hanno in ogni minuto della missione trasmesso. Ringrazio in particolar modo tutti voi che avete permesso con i vostri contributi e le vostre donazioni l’acquisto di molti kg di generi alimentari che abbiamo prontamente provveduto a distribuire e a lasciare all’Orfanatrofio dei nostri piccoli siriani, rimasti senza genitori.

Grazie a tutti.

MIRTA MARIA NERETTI

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